C’è una sfida impegnativa e ambiziosa – mi pare – al fondo dell’attesissimo Diabolik dei Manetti Bros: trasformare il bad hero creato all’inizio degli anni Sessanta, in pieno boom economico, dalle sorelle Giussani in una creatura cinematografica pur conservandone la natura fumettistica. Detto in altri termini: riuscire a conciliare sullo schermo la dinamicità del cinema con la staticità delle vignette del fumetto. È da questa visione ibrida e ossimorica che bisogna partire per apprezzare appieno il lavoro dei Manetti Bros e dei loro collaboratori. Il loro Diabolik non è e non vuol essere un cinecomic né una (inevitabilmente goffa) scimmiottatura italica dell’universo Marvel. È piuttosto una sofisticata operazione di conceptual art e al tempo stesso di retrò art che cerca di costruire un epos (magari un poco raggelato, ma pur sempre epos) a partire da una restituzione filologica del clima e delle atmosfere delle tavole originali e del tempo storico in cui quelle tavole nacquero e si depositarono nel nostro immaginario.
Il vintage è così la prima cifra che balza agli occhi, non solo negli abiti di scena dei personaggi, negli arredi degli interni (così intrisi di modernariato e di design d’antan), negli squarci urbani dominati da architetture razionaliste e novecentesche, ma anche nei colori, nei tagli di luci, nel rapporto fra le immagini e i suoni. Gli anni Sessanta vengono evocati e omaggiati finanche nella recitazione degli attori, nel modo di porgere le batture, perfino nel modo in cui si baciano Diabolik e Eva Kant. Così, ad esempio, dietro l’ispettore Ginko di Valerio Mastandrea sembra di scorgere – per lo meno agli spettatori meno giovani e con qualche memoria della storia della Tv italiana – l’ombra del Tenente Sheridan di Ubaldo Lay, mentre i baci a stampo fra Luca Marinelli (Diabolik) e Miriam Leone (Eva) hanno quell’aura di deliziosa inverosimiglianza e di pudica reticenza che rinvia – appunto – a certi sceneggiati Rai di quegli anni. Non è il realismo che hanno di mira i Manetti Bros. Ma neanche l’ipercinetismo di certi franchise dedicati ai supereroi. Se i Manetti girano un inseguimento (e nel film ce n’è di fatto uno solo, quello iniziale, con la Jaguar E-Type nera luccicante che romba zompa salta balza e sparisce) non è a Fast &Furious che bisogna pensare quanto piuttosto agli ingenui marchingegni e alle diavolerie tecnologiche del primo James Bond cinematografico, che di Diabolik – non a caso – è un non trascurabile coetaneo (il primo Bond arriva sugli schermi con Agente 007 Licenza di uccidere nel 1962, esattamente lo stesso anno in cui esce in edicola Diabolik). Con una differenza: Bond è al servizio di sua Maestà e ha la licenza di uccidere perché difende il Bene, mentre Diabolik è un criminale che la licenza di uccidere se la prende (anche nel film uccide con cinismo lanciando il suo pugnale nella schiena delle vittime) se gli serve per portare a compimento i suoi piani criminali. Come sostiene il guappo interpretato da Toni Servillo in 5 è il numero perfetto di Igort (di nuovo un film tratto da una graphic novel): “I fumetti americani – dice al figlio – stanno tutti dalla parte sbagliata. Stanno con i supereroi. Nei fumetti italiani invece, da Diabolik a Kriminal, gli eroi sono tutti delinquenti”. Diabolik è la quintessenza di questo paradosso. Ed è bene non scordarlo.
Diabolik non è – per dirla con Umberto Eco – un superuomo di massa. Non è un uomo qualunque che si traveste da supereroe per proteggere i deboli dalle vessazioni dei forti. E non è neppure un ladro gentiluomo alla Arsenio Lupin. Ma allora: come rendere affascinante un simile personaggio senza tradirne la natura “criminale” ma anche senza inseguire un epos tribale alla The Godfather? Questa è l’ulteriore sfida che i Manetti Bros si sono trovati davanti. E l’hanno vinta costruendo un film che – a differenza dei suoi personaggi – non mette maschere per fingere di essere quello che non è: il Diabolik dei Manetti mostra – senza ostentazioni ma anche senza reticenze – la sua natura di oggetto filmico al tempo stesso ludico (i Manetti giocano con i loro idola) e rituale (c’è quasi una liturgia celebrativa di tutto un immaginario nazional-popolare), acrobatico (per le acrobazie e le capriole del montaggio, se non altro) e carnevalesco (tutti si mettono in maschera), iconico (la visività prevale sulla narrazione) e in ultima istanza metafilmico. Perché i Manetti portano la creatura delle sorelle Giussani a dialogare con il fantasma di Hitchcock (le magnetiche entrate in scena della biondissima Eva sono squisitamente hitchcockiane, così come il diamante rosa a cui si dà la caccia risulta alla fine poco più che un macguffin…) e con quello del poliziottesco italiano, senza scordare l’impronta visuale di tutta la tradizione del cinema noir. Operazione raffinata. Molto più raffinata (e sospesa, ipnotica, rallentata) di quanto molti si aspettassero da un blockbuster da 10 milioni di euro. Ma tant’è: anche i Manetti ci regalano hitchcockianamente la loro tanche de gateau, la loro fetta di torta. Un po’ ipoglicemica e senza zuccheri aggiunti, forse. Ma per la nostra salute di spettatori golosi, e per il piacere dei nostri occhi, va davvero meglio così.
L’articolo è stato precedentemente pubblicato il 20 dicembre 2021 su We Love Cinema.